Il violinista
Strade bagnate, freddo, asfalto lucido e pozzanghere. Cielo grigio, muri grigi, grigie le facce dentro ai cappotti, ognuno infilato per la sua strada, a testa bassa, come su invisibili binari che non permettono perpendicolari di contatto. Gli incroci con altre vite, perfettamente regolati da un ordine di difesa. Era la città dei perfetti, la città dove il caso non aveva mai messo piede, la città della pioggia e del sole ad intervalli regolari, la città del previsto, la Città della Pace, come l’avevano chiamata.
Abitavano il luogo quelli che altrove dicevano “irregolari”, un recinto senza sbarre per chi aveva bisogno di “rieducazione all’esistenza”. Molto onesto, molto pulito, molto saggio da parte del governo.
Lui non sapeva da quanto tempo fosse lì, aveva perso il conto dei giorni, all’inizio l’aveva anche tenuto, aveva contato forse anche le ore, ma poi aveva deciso comunque di vivere e, per non morire, aveva capito che sarebbe stato meglio non resistere, rassegnarsi.
Aveva un violino, aveva dita lunghe, agili, eleganti. Non gli era stato permesso portare spartiti. Ridicola sicurezza di chi non sa cosa vuol dire musica: le note sono nel battere e levare del cuore, sono nel ritmo del respiro, sono nei sogni e nella veglia della mente prima di essere sulla carta, e dal cuore, dal fiato, dal pensiero dilagano in tutti i capillari.
Quando suonava lo spartito era sulla punta delle dita, quando suonava era in un altro luogo.
In un passato remoto aveva conosciuto una donna, la cosa che lo rattristava di più non era aver dimenticato il suo volto, quello che non lo lasciava in pace era il non saperne più la voce.
Gli aveva anche fatto del male, come solo un’amante distratta può fare, ma quello non contava più adesso. Ogni tanto la ricordava, senza amarezza, anzi, con un segreto sorriso. In quel ricordo trovava un po’ di quiete... chi l’avrebbe mai detto allora!
Quel giorno, come ogni giorno, faceva la sua strada regolare, prevista, malinconica. Aveva finito il suo lavoro, stava tornando a casa. Si sorprese a camminare secondo un ritmo calibrato, ogni tanto uno scarto, ma non ci stava male, pausa, ripresa. Veloce... allegro con brio. Tempi musicali assolutamente fuori luogo rispetto all’umore, come se a dettarli fosse qualcuno perfettamente estraneo a quella città, all’uomo che lui era, che era diventato.
Aveva fretta di tornare a casa per conoscere quella musica.
Gli avevano permesso di suonare, si capisce, ma in una stanza speciale, insonorizzata. Nessun fremito d’ala doveva sfuggire a quella gabbia. La musica è sempre stata pericolosa, ma è una forza della natura, una marea, un terremoto.
Rise di gusto a quel pensiero: comiche, meschine regole quelle che si illudono di cavalcare la tigre.
Gli avevano concesso di suonare, ma ad orari precisi. Non poteva permettersi di trasgredire, pena: sequestro dello strumento. Fine pena: mai.
La voglia di vivere è la cosa più prepotente della terra, la musica era la sua vita. L’ultimo tratto di strada: allegro moderato.
Le scale di corsa: vivace.
La custodia, il violino: fortissimo.
Pausa.
Respiro.
Lento moderato... la sua donna, il ricordo, la pace, un’altra vita. Largo maestoso.
C’era tutto: il dolore, la rabbia, l’amore e la passione, c’era la purezza e la trasgressione, c’era la scoperta del nemico e lo sberleffo. La rivincita della musica, la rivincita dell’umano.
E nel silenzio che seguì c’era la forza per sopportare un altro giorno.
Quando la mattina dopo aprì la porta per uscire niente faceva prevedere che sarebbe accaduto qualcosa, la calda consolazione di un imprevisto, l’aggressione compassionevole di un avvenimento.
Si portò sulla strada come tutti gli altri giorni, forse un po’ più leggero, ma non ci fece caso.
Stesso percorso, stesse facce, stesso orario. Tutto come previsto da un sistema perfetto.
La mente occupata in faccende banali, cose che aiutano la vita o che la abbattono... dipende. Scansare un passante distratto, cercare un appunto nella tasca, voltare un angolo: ecco, improvvisa, una stretta al braccio, una spinta violenta, quasi perdeva l’equilibrio. Un vicolo in ombra, un sussurro, due occhi chiari che puntano agli occhi.
“Io li conosco, quegli occhi li ho già visti, ti riconosco...”
“Papà, sono venuto a portarti via, si torna a casa”
“Ma ti hanno mandato loro?”
“No, sono qui per farti scappare, bisogna far presto...”
“Ma.. il violino...”
“Non c’è tempo da perdere”
Si guardarono un istante, possibile che quel figlio fosse venuto dal nulla? Possibile non ricordare? Ma fu un momento, tutto riaffiorò dal tempo sommerso fino a dilatarsi in un sorriso. Fu un attimo, poi si avviarono per la fuga... due profili simili, due vite legate da lontano, una pazzia che cominciava... ma questa è un’altra storia.
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